TOO COOL
FOR FAST FASHION

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IL FAST FASHION FA SCHIFO

La moda inquina, è un dato di fatto.
Secondo uno studio di quest’anno condotto dal gruppo The Eco Experts, l’industria del fashion è al sesto posto tra le industrie più inquinanti in base alle emissioni annuali di gas serra, immettendo tra i 4 e i 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in atmosfera ogni anno.

In particolare, con la sua nefasta tendenza a considerare i vestiti come prodotti usa e getta, il fast fashion è – proporzionalmente parlando – tra le industrie più inquinanti al mondo, essendo responsabile del 10% dell’inquinamento globale, al secondo posto dopo il settore petrolifero.

Ogni anno il fast fashion produce più di 50 collezioni, equivalenti a 80/100 miliardi di nuovi capi (circa 14 per ogni persona sulla Terra) che vengono indossati sempre meno: sono indumenti economici, realizzati in tempi rapidi, spesso da lavoratori sottopagati e con materiale a basso costo.

I numeri dello schifo

Ogni anno l’industria del fast fashion utilizza 93 miliardi di metri cubi d’acqua (il solo Gruppo Inditex, che possiede Zara, Stradivarius, Massimo Dutti e tanti altri, nel 2022 ha consumato 1.780.190 metri cubi d’acqua) e per l’Onu il 20% dell’acqua sprecata globalmente è ascrivibile a questo settore.
È responsabile di una quota significativa di emissioni di gas serra, stimate tra l’8 e il 10% del totale a livello mondiale.
Genera nella sola Unione Europea (secondo i dati dalla Commissione Europea) 5,2 milioni di tonnellate di rifiuti in abbigliamento e calzature all’anno, pari a 12kg/cittadino.
Ogni secondo un camion di vestiti viene svuotato in una discarica, quasi sempre del terzo mondo (vedi qui ad esempio quanto avviene nella discarica alla periferia di Accra, capitale del Ghana); l’85% dei tessuti va a finire in discarica ogni anno oppure vengono bruciati. Si stima che i rifiuti tessili superino i 92 milioni di tonnellate l’anno.

Per essere concreti, per produrre una delle nostre magliette H&M che paghiamo pochi euro il Parlamento Europeo stima che occorrano 2.700 litri d’acqua, pari al fabbisogno di acqua potabile per una singola persona per 2 anni e mezzo!
E non abbiamo messo in questo elenco i trasporti dei pacchi che il consumismo modello Amazon ha ormai reso una triste routine per tutti noi.

Le maledette microplastiche

Le fibre utilizzate nella produzione dei capi costituiscono un altro importante indicatore in termini di sostenibilità, se non il principale.
Il POLIESTERE, che grazie al suo essere particolarmente economico e versatile è diventato il materiale più utilizzato al mondo, richiede ingenti risorse (è infatti prodotto a partire da combustibili fossili e spesso mescolato con altre fibre), risulta difficilissimo da riciclare e spesso le sue microfibre vengono disperse lavaggio dopo lavaggio dalle lavatrici di tutto il mondo nell’ambiente finendo sul fondo di mari ed oceani.
Secondo le stime, il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% delle microplastiche primarie rilasciate nei mari e negli oceani e un singolo carico di biancheria in poliestere può arrivare a scaricare 700 mila fibre di microplastica.

93
di metri cubi d’acqua utilizzati ogni anno
8%-10%
delle emissioni mondiali prodotte
92
milioni di tonnellate l’anno di rifiuti

Come ridurre l’inquinamento della moda?

Anzitutto dopo aver letto queste poche righe dovrebbe essere abbastanza chiaro che l’unica e sola azione da intraprendere dovrebbe essere il boicottaggio di tutte le catene di fast fashion.
Ne riportiamo qui i brand principali, così che non possiate dire di esservi confusi: Shein, Temu, Zara con i suoi sub-brand Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho, H&M, Mango, Forever 21, Uniqlo, Gap, Boohoo, Fashion Nova, Primark.

Poi occorre ACQUISTARE MENO E ACQUISTARE MEGLIO puntando su prodotti più duraturi, che utilizzano come materia prima materiale riciclato, abiti più facili da riutilizzare, riparare, riciclare e, infine, smaltire.
Si dovrebbe guardare tutte le volte la composizione di un capo, evitando in primissimo luogo tutto quanto è sintetico.
Acquistare solo da chi rispetta diritti umani, sociali e del lavoro, così come l’ambiente e il benessere degli animali e chi è trasparente nel comunicare le proprie politiche produttive.

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